Storie e ispirazioni dei registi del Festival, sorseggiando una tazza di tè

“Per vent’anni in Sudan non si sono girati né cortometraggi né lungometraggi. Adesso qualcosa si sta muovendo, come dimostra il mio film”. Sin dagli albori, il nostro Festival si è sempre dato l’obiettivo di dare visibilità a cinematografie marginalizzate: in questo senso, l’analisi di Mohamed Kordofani, regista di Nyerkuk, in concorso nella sezione dei cortometraggi, ha evidenziato come lo spirito della kermesse non si cambiato: “Da piccolo sognavo di fare il regista, ma temevo fosse un mestiere del tutto fuori portata per me”.

Accanto all’autore sudanese, ieri all’Ora del Té erano presenti altri importanti ospiti. Per esempio Sanjeewa Pushpakumara, regista di Burning Birds, in concorso nella sezione lungometraggi: “Le mie fonti d’ispirazioni le rintraccio nei lavori di Bresson e Tarkovsky ma anche di Rembrandt e Caravaggio. Ecco perchè nel mio film non ci sono parole: esattamente per lo stesso motivo per cui le opere di Caravaggio non hanno didascalie che le spieghino. Ho grande rispetto dell’intelligenza e della immaginazione degli spettatori”.

Anche il lungometraggio in concorso Zaineb n’aime pas la neige, come ha sottolineato il moderatore della chiacchierata Giuseppe Gariazzo, “è un film ricco di immagini di grande forza, un diario intimo estrememente toccante”. La regista del film, la tunisina Kaouther Ben Hania, ha sottolineato quanto le premesse creare complicità con gli attori: “Ho capito subito quanto questo fosse necessario alla buona riuscita del mio lavoro. Inoltre, ho cercato di scrivere un finale che sorprendesse lo spettatore”.

Nell’incontro hanno poi avuto spazio alcuni registi della sezione Extr’A. Se Tommaso Cotronei ha spiegato come attraverso le spose bambine yemenite di The Runaway Bride ha indirettamente raccontato la sua Calabria dimenticata, Giuseppe Carrieri, regista di Love Songs For a Genocide, ha raccontato come del genocidio ruandese volesse analizzare il sentimento di amore che ha consentito il perdono dei carnefici da parte delle vittime. Infine Paolo Civati si è soffermato sulla la tribolata genesi di Castro: “Sono stato un anno e mezzo nella casa occupata da questi ragazzi con la fame di delinquenti. Le riprese sono durate un anno e mezzo”.

Foto di Simone Sapia

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